I neologismi di Papa Francesco

L’indietrismo… 

Indietrismo è la parola che Papa Francesco ha coniato recentemente. Come ogni neologismo, riesce a sintetizzare in un vocabolo una realtà particolare con un vestito verbale di grande efficacia.  

Indietrismo è la fotografia di quelli che vogliono andare avanti guardando indietro; di quelli che hanno gettato l’ancora della vita su fondali ritenuti sicuri, illudendosi così di evitare i marosi e le tempeste della vita; di coloro, ancora, che vivono nella certezza che il passato “sì che vale”, comunque e sempre, al contrario del presente che non va, che ha mille e mille difetti.

Gli indietristi applaudono alla morale rigida che non ammette eccezioni: o sì o no, senza guardare in faccia a nessuno; che, mentre sono estasiati dalle antiche liturgie di vesti sontuose, di cerimoniali complessi, di plurali maiestatici, sono sprezzanti verso i tentativi di confezionare liturgie partecipate, comprensibili, dove i fedeli, uomini e donne, sono più attivi e corresponsabili.  

In realtà, rinunciando ad accogliere la tradizione viva dei morti, si ostinano ad aggrapparsi alla fede morta dei vivi, come afferma con dolore il Papa: laudatori dei tempi passati, tendono a sostituire la Tradizione – sempre dinamica e pulsante perché vive nella novità dello Spirito –  con le tradizioni, le quali sono invece umane e quindi transitorie.   

Il vignettista Sillioni in un’illustrazione, immaginando le parole del Papa, ha scritto con ironia: Anche dalla papamobile ho fatto togliere la retromarcia!” 

Indietristi e progressisti hanno il loro evidente, grave limite nell’ ismo, cioè nell’eccesso di attenzione su uno dei due tempi, elidendo l’altro: i primi vorrebbero che il futuro fosse il passato, i secondi cavalcare un futuro svincolandosi dalla zavorra del passato: e così l’oggi rimane mutilato e incomprensibile.

Gli uni e gli altri non riescono a comprendere che Gesù Cristo è ieri, oggi, sempre

Esiste anche un indietrismo missionario, motivato spesso dalla paura di affrontare le inevitabili sfide del nuovo, del diverso, dell’imprevisto; così chi parte, inviato come discepolo-missionario del Vangelo, porta nelle valigie il carico rassicurante del proprio modello culturale, certo di poterlo esportare presso la popolazione cui è inviato. Ma il proprio modello culturale quando è divinizzato resta il più vero indietrismo missionario: ci si chiede se colui che è venuto a evangelizzare stia davvero dov’è arrivato oppure una gran parte di lui abiti ancora là dov’era. 

Tale indietrismo missionario blocca il meraviglioso lavoro cui è chiamato l’annuncio evangelico, quello chiamato inculturazione che è una specie di matrimonio, celebrato dal missionario, tra la cultura del posto e il Vangelo. Per celebrare queste nozze, l’apostolo ha da tuffarsi nel vocabolario del popolo, nei suoi menù, nel suo modo di vestire, di gesticolare, di lavorare. Proprio come ha fatto Gesù che ha imparato la lingua della gente, immettendo nelle parole del popolo la Parola di Dio, incarnando questa, accogliendo quelle.  

È proprio nel lavoro di inculturazione – fatto in mezzo alla gente più che a tavolino – che la Chiesa, accogliendo tutta questa pluriforme novità, si adorna di nuovi gioielli e si abbiglia come una sposa per il Cristo suo sposo. E ciò è possibile quando gli occhi simpatici del missionario sanno intravedere in ogni cultura le sillabe del Verbo, il buono e il bello che Padre ha seminato in tutti i popoli; confrontando ogni cosa col Vangelo per purificarla e approfondirla con le necessarie correzioni. 

Il discepolo-missionario del Vangelo, in realtà, attacca alla dimensione orizzontale – sulla quale trovare l’armonia nella lotta tra indietrismi e progressismi – il braccio verticale, quello che fa discendere Dio che si incarna ovunque, in tutti, e fa ascendere ogni cultura verso Dio: in tal modo, egli traccia il segno della croce che resta sempre la prova del nove per ogni operazione, di ogni vera inculturazione 

 

                                                                                                                                  fr. Massimo Tedoldi