Marocco nel cuore…

Dal 27 luglio al 14 agosto 2022, insieme a Fra Pietro ed altri otto volontari, ho partecipato ad una missione francescana di volontariato. L’attività era dedicata ai bambini dell’orfanotrofio di Meknès in Marocco.

L’orfanotrofio di questa città è un lungo corridoio al quinto e ultimo piano dell’ospedale Mohammed V. Da una parte, una serie di finestre che affacciano sulla città, poste troppo in alto affinché i bimbi possano godersi il panorama (gli adolescenti sono più fortunati). Sull’altro lato, tante stanze chiuse da porte di legno, con all’interno letti a castello e alcuni materassi sul pavimento. Nell’ospedale non ci sono indicazioni che segnalano l’esistenza dell’orfanotrofio. Come se fosse qualcosa da “nascondere”, di cui non lasciare traccia. Le condizioni della struttura sono discrete. Non siamo in un villaggio sperduto dell’Africa, ma la sensazione è quella di essere indietro di qualche decennio rispetto alle strutture più avanzate della nostra bistrattata Italia. Tra queste mura vive qualche decina di bambini e adolescenti, la maggior parte colpita da disabilità perlopiù molto gravi o da autismo. Per i disabili non c’è alcuna speranza di essere adottati. La loro vita è confinata per sempre tra quelle mura. Insieme a loro ci sono quelle che chiamano “nurse”, signore non qualificate che con turni di 24 ore ciascuna mettono a dura prova fisico e mente stando accanto a questi ragazzi sfamandoli, lavandoli e sgridandoli talvolta in maniera un po’ esagerata. Non ho mai notato la presenza di veri e propri medici. Tra queste signore c’è anche Kenza, un vero angelo custode, che con ognuno di noi volontari è stata accogliente, sorridente e mi ha concesso di dedicarmi a Rami in maniera del tutto personale.

Rami è un bimbo autistico di circa otto anni. Passa buona parte della giornata a tentare di essere preso in braccio da qualche adulto. Se non viene accontentato, si butta per terra e piange disperatamente. Talvolta, senza ragione alcuna, lancia qualche schiaffo potente a chi gli sta intorno. L’ho accontentato sin dal primo giorno. È venuto lui da me e il suo desiderio era chiaro: salire più in alto possibile, staccare i piedi dal pavimento e sedersi sul davanzale della finestra per guardare il panorama. Quando osservava la città dal quinto piano dell’ospedale, portava le mani accanto al volto e iniziava a gesticolare in maniera anomala, come se fosse eccitato all’idea di poter osservare un mondo, quello là fuori, che lui non ha mai conosciuto. Perlomeno, questa è l’interpretazione (forse un po’ fiabesca) che ho adottato sin dai primi giorni. A un certo punto, però, mi sono accorto che lo stavo assecondando in un loop che non gli regalava alcun sorriso e che manteneva i suoi occhi spenti. Dopo qualche giorno ero stanco e annoiato da quella sua richiesta. Così, per puro caso, mentre era seduto sul davanzale, standogli accanto per proteggerlo, ho iniziato a battere le mani a tempo di musica sul muro, cantando “Mamma Maria” dei Ricchi e Poveri. Ok, la scelta della canzone è discutibile ma, per la prima volta, Rami ha staccato gli occhi dalla finestra e ha guardato i miei. Ha allungato le braccia per chiedermi di essere tolto dal davanzale. Sapevo che se l’avessi messo sul pavimento sarebbe scoppiato a piangere, quindi l’ho tenuto tra le mie braccia, ho continuato a cantare “Mamma Maria” e ho iniziato a ballare insieme a lui come se l’ospedale fosse una discoteca. Facevamo le piroette, gli facevo fare delle strane acrobazie, lo muovevo a tempo di musica e lui rideva, rideva per la prima volta. Eravamo io e lui, in mezzo al corridoio, da soli, a ballare, io cantavo e lui rideva felice. A un certo punto ha stretto la sua testa contro la mia. In quel momento mi è venuto da piangere. Ho capito che si era creata una connessione che andava al di là della finestra e al di là dell’essere preso in braccio. È stato il momento di svolta.

Da quell’istante il mio lavoro con Rami è stato quello di fargli trovare un’alternativa a quel davanzale. Così, tra un canto e un ballo, ho provato a coinvolgerlo in attività per lui sconosciute. Un mattino, grazie all’autorizzazione di Kenza, l’ho portato sulla piccola piscina di plastica in terrazza. Era terrorizzato all’idea di entrare in quei pochi centimetri d’acqua. Pur non essendo in costume, ho tolto la maglietta e mi sono buttato nell’acqua in pantaloncini. Rami è rimasto in mutande. Ali e Zineb, adolescenti, non autistici e prossimi all’adozione, mi davano una mano a fare un po’ di casino con la canna dell’acqua. Mi sono buttato in piscina e ho finto di affogare. Rami rimaneva fuori. Mi guardava, voleva aiutarmi ma era in difficoltà. Non aveva mai vissuto nulla di simile. Volevo fargli capire che, come io ero tornato utile a lui, anche lui aveva tutte le possibilità per fare qualcosa per me. Gli tendevo la mano per farmi “salvare” da quell’annegamento. Ho gridato il suo nome decine di volte per fare in modo che non si distraesse. A un certo punto, Rami ha teso la sua mano ed ha afferrato la mia, cercando di trascinarmi fuori da quella piscina per salvarmi. E quando sono uscito l’ho abbracciato forte e ho iniziato a ringraziarlo: “shukran Rami, shukran”. Era così felice che cinque minuti dopo eravamo insieme, coricati nella piscina, a farci bagnare da Zineb con la canna dell’acqua. Forse si era sentito importante, sapeva di aver fatto qualcosa per me e, al contempo, era pronto a fidarsi di me.

Una delle sue principali difficoltà era quella di tenere i piedi per terra e condividermi con gli altri bambini. L’idea che qualcun altro catturasse la mia attenzione lo mandava fuori di testa e iniziava a tirare sberloni ai suoi coetanei. Così ho provato a lavorare anche su quello: ci siamo messi in cerchio, abbiamo fatto delle coreografie improvvisate, con la mano destra tenevo la sua mano e con la sinistra quella di un altro bambino. Prestavo maggiore attenzione a lui, citavo il suo nome più e più volte per fargli capire che ero lì per lui e che non l’avrei abbandonato, ma che le mie mani erano due e l’altra non era per lui. E così, piano piano, l’ho visto ballare insieme agli altri bambini. Come, qualche giorno dopo, abbiamo fatto una corsa nel corridoio: io in mezzo, lui a destra, un altro bimbo a sinistra. Sempre per mano. Sembrava incredibile: stava giocando con i piedi per terra condividendomi con un altro bambino. Ricordo lo sguardo stupito delle “nurse” che sottolinearono l’evento con un applauso.

Tre settimane sono poche, pochissime, e i bambini a cui regalare tempo e spazio erano tanti, ma ho voluto fare un ultimo esperimento: fargli conoscere un nuovo modo di stare in braccio. Gli ho messo le gambe intorno al mio collo e gli ho tenuto strette le mani. Poi mi sono messo a correre. La prima volta si è messo a piangere spaventato. Qualche giorno dopo ci ho riprovato ed ha funzionato. Da quel momento è stato lui a imparare come si saliva, come doveva tenersi e come doveva scendere. Aveva imparato qualcosa di nuovo nonostante la sua patologia.

Quando, l’ultimo giorno, abbiamo dovuto salutarci, abbiamo pianto. Mi si è stretto il cuore e ancora oggi, a ripensarci, mi commuovo. Io e Kenza ci siamo scambiati il numero: mi manderà le foto di Rami ed io manderò dei video a lui, anche se probabilmente non mi riconoscerà e i video serviranno a poco. Quell’ultima sera mi sono allontanato dal resto del gruppo e gli ho parlato, anche se lui non avrà capito nulla. L’augurio che gli ho fatto lo tengo per me e per lui. Ma voglio dire questo: non importa chi sarà a farlo, ma importa che nella sua vita ci sia qualcuno pronto a dargli l’opportunità di sorridere e scoprire qualcosa di nuovo nel suo piccolo mondo confinato tra quattro mura.

Con la mia testimonianza non voglio prendermi alcun merito, ma solo raccontare che con l’amore, la pazienza, la cura, l’empatia, la forza di volontà, la vicinanza, la perseveranza e la profonda attenzione ad ogni piccola sfumatura, è possibile ottenere dei piccoli risultati anche di fronte a situazioni così complesse.

Marco