I mesi dell’estate ci portano giorni di vacanza, momenti di viaggio e di relax, visita a luoghi turistici o a città d’arte. Al mare o su qualche lago racchiuso dai monti abbiamo visto qualche barca che veleggiava, scostandosi da riva e prendendo il largo. Si rimane stupefatti davanti al mistero del vento che, se catturato da una vela, può sospingere uno scafo dandogli la possibilità di solcare le acque anche se carico di persone o di bagagli. Saper riconoscere la direzione del vento, prendere la decisione di alzare le vele per lasciare la costa e avventurarsi al largo non fa parte soltanto di un mestiere o di un hobby, ma è anche l’arte del vivere a cui è chiamato ogni fedele cristiano e ogni comunità, sia essa diocesana, parrocchiale, di religiosi o associazione di fedeli laici. Il dono dello Spirito non è stato elargito solo in quel tempo lontano di Pentecoste, ma può essere sperimentato ogni giorno dai discepoli di Gesù se si impegnano ad alzare le vele.
Dal 2013 il nostro Centro si caratterizza per la missione tra i popoli e per i migranti. Ha dato vita a corsi di informazione che in breve si sono trasformati in occasioni di incontro tra italiani e persone emigrate da vari paesi, con lingue, religioni e culture diverse.
Gente che è venuta a casa nostra per superare la miseria, che cerca pane e lavoro nelle nostre terre; gente costretta a fuggire dal proprio paese per problemi militari e politici; gente adescata da loschi traffici internazionali che finisce per dare spessore alla malavita, alla tratta degli esseri umani o ai traffici di droga. Nessuno di noi sa come affrontare questo fenomeno che non è più solo italiano ed europeo, dato che i movimenti migratori attraversano i continenti. Se guardiamo alle cifre, si calcola che siano oltre i 300 milioni, gli uomini, le donne e i bambini che ne sono interessati. Ai nostri occhi sembrano quasi tutti musulmani, ma ci sfugge che ci sono tantissimi dell’Europa dell’Est, cristiani ortodossi o cattolici di rito orientale; ci sono latino americani e filippini che nel loro passato hanno presente il nome di Cristo; così come tanti africani sono arrivati da noi perché un giorno dei missionari protestanti o cattolici annunciarono il Vangelo nelle loro terre e adesso affollano le nostre piazze e le nostre spiagge come “vu cumprà”, lavorano nelle nostre fonderie o, in nero, raccolgono quintali di pomodori.
Come Centro Missionario abbiamo cercato in questi anni di leggere statistiche, di incontrare operatori della Caritas e anche qualcuno di loro. Un approccio semplice e alla portata di tutti. E abbiamo scoperto che aldilà delle necessità materiali (cibo, letto, lavoro), c’è un anelito al trascendente: quello di una relazione personale che consenta di ricostruire una casa nell’umanità con noi italiani e con altri migranti e una ricerca di infinito in Dio. Quanto riconosciuto ci ha fatto constatare che le nostre Caritas parrocchiali o diocesane cercano di dare risposta, giustamente, ai loro bisogni primari, ma ciò può essere sufficiente? Come cristiani cattolici ci siamo mai chiesti: “Come sta la loro fede in Dio? Riescono a condividere la nostra mensa dell’anima?” Qualcuno di noi, cattolico praticante, si è già dato premura di offrire loro uno spazio di inserimento e di collaborazione nelle nostre comunità? Chi di noi sta dando loro una mano per superare quell’isolamento che ancora li penalizza?
fr. Guido Ravaglia
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